Clubhouse
Clubhouse ha una sua identity, essendo un brand, dovendo vendere. ed è talmente ben definita da essere reperibile sul suo sito, cosa non comune. niente di che: sfondo lilla, font bianco, un pallino, una bandierina.
Poi però, al momento di scaricare la app, si può rimanere confusi, perché quella stessa identità visiva nello store non si trova. al suo posto incontreremo invece un’icona con un ritratto in bianco e nero, come siamo abituati a vedere di fianco ai nostri nomi sui profili social.
La scelta è rivoluzionaria per diverse ragioni.
Primo: per reperibilità – nel marasma di decine di app che abbiamo scaricato sul telefono, non sempre è facile raccapezzarsi con rapidità e trovare quel che si cerca. il primo entry point è dunque di carattere pratico: clubhouse si trova in fretta. e non è poco.
Secondo: human-based mirroring – l’essenza che clubhouse ci sta comunicando del suo prodotto è di natura empatica e mira a rifletterci come comunità. cliccare sull’icona di clubhouse è come cliccare su una foto profilo: con quel gesto ci si aspetta di scoprire di più su una persona, non su un prodotto.
Terzo: storytelling – ci saremo anche rotti di sentire questo termine, ma è evidentemente là dall’essere obsoleto. perché la domanda che infine deve sorgere spontanea è: chi sono le persone ritratte nell’icona? talenti, li chiameremmo nel marketing, o talents, ovvero figure emergenti e di spicco del settore audio-radiofonico-musicale, ma non solo.
Uno dei primi volti del ciclo di icone è stato il musicista afroamericano bomani x, cantautore e chitarrista che durante il primo lockdown dello scorso anno ha usato clubhouse come media per rilanciare la propria attività, accompagnando i talks con la sua chitarra.
L’11 dicembre, sul profilo twitter di clubhouse è comparso il post che annunciava il lancio dell’icona con bomani x, specificando che l’immagine verrà cambiata – a mò di doodle – ad ogni aggiornamento di app, celebrando i talenti della community.
La storia dunque che clubhouse ci racconta è una storia di comunità, di talento e di opportunità, grazie a questa piccola intuizione che poco poco avrebbe dovuto saltare in mente prima a qualche geniaccio della silicon valley impiegato di zuckerberg (non per niente si chiama “facebook”). I volti promossi da clubhouse infatti non appartengono soltanto a musicisti e cantanti, ma anche a professionisti e attivisti, come ad esempio julie wenah, avvocatessa e artista che su clubhouse parla di questioni legali e di musica, ma anche king kiko, fondatore dell’organizzazione “the 99 problems” che si è occupata della mobilitazione politica nelle elezioni americane.
In sintesi, pur non essendosi inventati niente, questo meticcio frutto dell’incontro tra spotify e instagram stories ma con l’interfaccia del caro vecchio tumblr, è stato in grado di differenziarsi con efficacia da tutti i competitor semplicemente costruendo un’immagine community-centered che racconti la diversità dei suoi utenti.
Certo non è il no logo che aveva in mente la klein, ma no logo lo è a tutti gli effetti, compiendo per primo uno shift coraggiosissimo – che prima o poi comunque sarebbe dovuto avvenire – in cui l’identità di marca è composta interamente da chi della marca fruisce. perché se non ve lo avessi detto io che il monogramma di clubhouse prevede punto e bandierina, voi certo non ve lo sareste ricordati (pur avendo bene in mente i loghi di instagram, spotify e tumblr).
Se vi stavate chiedendo fin dove si sarebbe spinta la forzosa generosità dei brand in favore dei consumatori, beh, questa è certamente la più grande novità; ma si tratta chiaramente solo dell’inizio. l’identità di marca, così ingombrante e severa, è destinata a scivolare via e a divenire presto un oggetto obsoleto, coperto dalle voci e dai volti dei consumatori, che proprio non possono fare a meno di essere protagonisti assoluti dei prodotti che comprano.
“Se il prodotto è gratuito, il prodotto sei tu”, è così che si dice, giusto? bene, ora sul prodotto c’è anche la tua faccia. e viene scaricata da sei milioni di persone in tutto il mondo.