Parliamo d’altro
Move fast and break things.
Unless you are breaking stuff,
you are not moving fast enough.
— Mark Zuckerberg
In quanto addetti ai lavori, da tre giorni veniamo puntualmente interpellati in merito a Meta e agli annunci di Zuckerberg. Parlando a titolo strettamente personale, ho scelto deliberatamente di non commentare le presunte “grandi novità” (come le chiamano le testate a libro paga di Facebook) annunciate da Mark Zuckerberg il 28 ottobre sera. Il punto è che – e ripeto, riporto un mio punto di vista, non dell’agenzia – ci troviamo di fronte ad una nuova e massiccia operazione di storytelling coi fiocchi.
Come nel 1991, durante lo scandalo degli sweatshops che scosse Nike, la strategia fu non di negare o di ammettere i propri errori, quanto di sotterrare le accuse con una mole inedita di narrativa mediatica. Oggi assistiamo a qualcosa di estremamente simile, ma proprio a fronte dei tanti precedenti, anche di spudoratamente ingenuo.
Che sul tramonto del 2021, altro annus horribilis, ci dobbiamo sottoporre alla fascinazione di Zuckerberg è, francamente, un po’ troppo. Come troppo è doverlo sentire annunciare trionfante un rebranding (in questi termini poi riportato dalla stampa), quando un rebranding non è: la app Facebook rimane Facebook (con tutti i limiti del brand Facebook), semplicemente non sarà più il nome della holding che controlla – tramite acquisizioni dubbie e ancora sotto inchiesta – l’impero che comprende anche Whatsapp e Instagram, tra gli altri, ma che andrà invece a impolpare “alla pari” i sub-brand sotto il nome della controllata Meta. In pratica, Facebook Inc. diventa Meta, ma Facebook app rimane la stessa. E, attenzione, non è una novità sconvolgente: l’azienda portava il nome di un brand in declino, un’operazione di naming è forse la mossa più saggia da parte di Zuckerberg. Troppe rogne gli sta portando Facebook, meglio mettere in fretta e furia in piedi l’identity più banale e ridondante che ci possa venire in mente (sforzo creativo: zero) e gettare negli occhi al mondo un po’ di fantascienza. Sì, fantascienza pura e semplice. Perché gli “annunci” di Zuckerberg altro non erano altro che un “stiamo lavorando a” e “tra un po’ potremo”, senza mettere sul piatto innovazioni di sorta.
Quando poi seguendo la diretta mi sono visto comparire il termine “teleporting” ho fatto un balzo dalla sedia. Avrò capito male io? Macché, vai a controllare sul Cambridge Dictionary ed ecco la definizione:
teleport
verb [ I or T ]
UK /ˈtel.ɪ.pɔːt/ US /ˈtel.ə.pɔːrt/
to (cause to) travel by an imaginary very fast form of transport
that uses special technology or special mental powers.
Genio. Il teletrasporto. Solo chi ha passato gli ultimi mesi a riempirsi le tasche di pubbliredazionali poteva avere il fegato di fingere stupore.
Il “metaverso”, poi. Questa volta da Wikipedia:
Metaverso (in inglese Metaverse) è un termine coniato da Neal Stephenson in Snow Crash (1992), libro di fantascienza cyberpunk, descritto come una sorta di realtà virtuale condivisa tramite internet, dove si è rappresentati in tre dimensioni attraverso il proprio avatar.
Possiamo tranquillamente dire che Zuckerberg ha infranto la barriera dello storytelling, ma anche di quella che in inglese si definisce “bullshit”, ovvero: stronzata. E non perché non sia vero che queste tecnologie siano in cantiere, figuriamoci, ma per il tempismo pre puberale che ogni bimbo impara a sviluppare quando è colto in castagna e diventa capace di inventarsi le più grosse fesserie per scagionarsi agli occhi dell’autorità. Per questo non mi dilungherò ad affrontare tutte le “grandi novità” di Facebook, perché sarebbe come portare il cane a fare un’ecografia per vedere se veramente ha mangiato i compiti di mio figlio.
Parliamo d’altro, invece.
Parliamo di quello di cui dovremmo parlare e su cui invece la stampa nazionale non si sente di esporsi. Parliamo dei Facebook Papers, ad esempio, le cui informazioni sono trapelate, vediamo… toh! il 25 ottobre: tre giorni prima del grande lancio del brand col font in Helvetica, il nome da collana Urania e il logo disegnato nella notte tra il 26 e il 27.
Parliamo di come risulterebbe che Facebook avesse da tempo ricevuto un rapporto sui disagi psicologici provocati sugli adolescenti da Instagram e non avesse preso nessuna iniziativa per risolvere il problema.
Parliamo di quanto Facebook sia manifestamente impreparato ad affrontare il tema delle fake news (da anni ormai, con i risultati che ben conosciamo) e ancor più incapace di farsi capire in paesi come l’India, che parla 22 lingue differenti e dove l’incitamento all’odio verso i musulmani dilaga senza argini di alcun tipo.
Oppure parliamo dell’Etiopia, dove Facebook non ha quasi nessuna risorsa per contrastare il diffondersi della disinformazione, benché nel paese il social network abbia milioni di utenti e un ruolo rilevante nella vita pubblica.
Parliamo dell’Afghanistan, dove Facebook ha 5 milioni di utenti e anche qui le pagine per denunciare l’incitamento all’odio sono tradotte male.
Parliamo di privacy.
Parliamo di questo mondo, di qui ed ora, non del metaverso. Perché i problemi del mondo reale hanno la precedenza sulle stronzate di Mark Zuckerberg e sulla cattiva informazione che fanno i nostri quotidiani.
“Perché ognuno possa avere un luogo dove l’idea che desidera che gli altri abbiano di sé prevalga sulla sua immagine reale” ha detto il ragazzo durante la diretta, sperando forse che nel metaverso tutto il mondo abbia un’idea di lui diversa dal farabutto che in realtà è.
Ma infondo si tratta di una tecnologia alla quale stanno lavorando. Fino ad allora, non fidiamoci dello storytelling e approfondiamo le notizie.
Quelle che avete letto, in parte, le ho prese da questo articolo de il Post.
E meno male che c’è il Post.
Giulio Rubinelli
Creative Director no panic agency
Creative Strategist no panic & act